C’era una volta in America -diario di bordo-

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Nuovo anno, nuova avventura cinematografica. Gli anni anagrafici aumentano e con essi i chilometri percorsi; è stata infatti questa la volta di Los Angeles. La nota città degli angeli, patria del cinema e delle stelle, mi ha accolta in tutta la sua vastità. 
Prima ancora che la peregrinazione avesse inizio, la mia mente già ramingava; tant’è vero che, alla scritta “departures” in aereoporto, si sentiva una dipartita di The Leftovers. Questo se non fosse che, ben presto, le sue manie di grandezza sono state interrotte, perché di partenze non ce ne sono state, ma anzi, perché io ed altri 209 sciagurati siamo diventati i Leftovers di Malpensa (avessi incontrato un Kevin ciò non avrebbe costituito un problema).
Tale evento non ha però interrotto il girovagare del mio pensiero che, al contrario, dalla serie targata HBO, è entrato in modalità Spielberg con The terminal. Per mia fortuna la mia permanenza al terminal è stata ben più breve di quella di Vicktor e, 24 ore e qualche invettiva dopo, ero finalmente su un volo alla volta di New York con 5 nuovi compagni di viaggio.
Sorvolando il momento di smarrimento nelle grande mela e lo schema Lost nella tratta NY-LA, sono infine giunta a destinazione.
Oh Los Angeles, città delle opportunità, città dei folli, meta per i sognatori amorevole e beffarda. Se Mufasa avesse dovuto descriverne i confini a Simba di certo avrebbe trovato non poche difficoltà, poiché, con tutti i suoi quartieri, con tutte le sue innumerevoli strade che si contorcono e si intricano come delle viscere, raggiunge un’ampiezza allucinante.
Ed in tale vastità ho reperito il mio albergo e, con esso, la modalità “una notte da leoni” alla vista della macchina del ghiaccio e del possibile cinese sigillato al suo interno. Ma questa fase ha avuto vita breve, per così dire, poiché mi è bastato posare lo sguardo su ciò che si stagliava oltre la vetrata della mia camera per divenire Bruce Willis in Die Hard, in quanto si, la famigerata trappola di cristallo, in tutta la sua imponenza, era la mia vicina. 


La mattina seguente ho vagato per la città con lo sguardo assorto ed innamorato di Amelie, con l’armonia di “city of Stars” che mi risuonava nelle orecchie e, tra una strada reperita in La La Land ed un sacchetto librato in cielo alla American Beauty, sono giunta alla conclusione che, Los Angeles, non sia una bella città; è confusa, poco curata, eppure l’aria che si respira è così dannatamente satura di Cinema, che risulta per me impossibile dire che non le abbia lasciato un frammento di cuore, che non mi abbia tolto il fiato almeno in un’occasione. E ciò non per le stelle, per le impronte o per le centinaia di cartelloni cinematografici, ma perché, se ci si concentra, ogni singolo angolo diviene improvvisamente familiare, in quando scorto nel frame di un film.


Giunti a questo punto vi starete domandando cosa abbia di speciale il mio viaggio, perché io ne scriva, come mai vi stia assillando con le mie storie. Sono infatti conscia di essermi dilungata sin troppo, ma abbiate pietà, è ancora una vicissitudine fresca; mentre scrivo sono infatti sulla via del ritorno. Comunque la particolarità di questo espatrio sta nel fatto che ho avuto la magnifica opportunità di visitare gli studi della Fox. Per una giornata il mio nome è stato nel sistema della famosa casa cinematografica insieme a quello di Ryan Murphy, che fosse nella sezione “visitors” è un’altra questione (visitors, eviterò di soffermarmi sulla modalità della mia mente).


E che dire di questa mia esperienza? Per prima cosa che mi ha dato la possibilità di perdermi a New York senza spostarmi da Los Angeles, poi che non ho mai visto nulla di tanto affascinante: la quantità di dettagli su un set, anche i più banali che in un’inquadratura nessuno noterebbe, è incredibile.
Varcando il gate 1 sono entrata in un nuovo mondo, in cui tutto pareva possibile, in cui nulla era reale eppure in cui le speranze parevano così vere. Un mondo in cui Rose e Deadpool coesistono, in cui vi si trova un’intera stanza debita unicamente alla catalogazione del vestiario per i personaggi senza tetto. Infinite distese di costumi di ogni colore e misura per aver modo di ricreare qualunque sfaccettatura umana e rendere incredibilmente autentica una finzione, perché, come diceva Forrest, dalle scarpe di una persona si possono capire molte cose: dove è stata, dove andrà. Mi sono ritrovata nella macchina in cui nascono i sogni, dove vengono generate le storie che ci faranno ridere, piangere, empatizzare con chi non è altro che l’ombra di una fantasia, la proiezione di un’idea, che ci faranno credere di conoscere chi le ha costruite, chi le ha nutrite.


Da quanto mi è stato riferito, il mondo a cui ho avuto accesso, appartiene quasi unicamente a Murphy (il mio esempio di Prima non era casuale), il quale è l’unico ad avere all’interno di quel microcosmo- che tanto micro non è- un edificio unicamente per sè. Ed in pochi passi nella casa di Ryan, sono andata dal McLaren’s al fianco di Barney Stinson al Griffin di New Girl, passando per la casa di Cece e Schmidt. Ho avuto modo di vedere il buon vecchio Deadpool, gli abiti di Miss. Doubtfire, ho ammirato gli artigli di Logan a pochi centimetri dal l’abito rosso di Rose e dalle mani di forbice del dolce Edward.

Ho avuto modo di confermare che la settima arte si è guadagnata tale titolo e, sebbene la parte economica rimarrà sempre alla base di tutto, finché ci sarà qualcuno che la alimenti con la propria passione, essa non smetterà mai di crescere, di darci accesso a nuovi universi narrativi e, con essi, alle più disparate emozioni, facendo si che la realtà non ci risulti mai troppo stretta (sempre che non si diventi Madame Bovary).

Perciò, in conclusione, che la città degli angeli continui a splendere, così che con la sua luce possa illuminare anche noi.


Eh si, al ritorno, in aeroporto, ho avuto le stesse difficoltà di Nora Durst e, come in un loop, benvenuta di nuovo modalità The Leftovers.

Camilla.

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