Oggi parleremo di quella che è l’ultima fatica dell’accoppiata Marvel/Netflix, duo che aveva funzionato perfettamente agli albori, ma che si era poi perso con due serie deboli, sia nella messa in scena che nella trama, e che in seguito pareva essersi ripreso con il crossover “The Defenders”.
Con the Punisher questa ripresa viene fortunatamente confermata: ci troviamo infatti di fronte al secondo miglior prodotto dopo Daredevil, anzi forse unicamente dopo la prima stagione di Daredevil.
La storia affrontata è ovviamente quella di Frank Castle, reduce di guerra a cui non viene lasciato il tempo di adattarsi al rientro in patria, perché subito viene privato brutalmente dell’intera famiglia. Castle perdendo quindi fiducia nel sistema decide di optare per la giustizia privata e diviene colui che è noto a tutti come “il punitore”. In questo capitolo si trova a dover collaborare con un altro fantasma di New York, Micro Aka David Lieberman, per poter permettere a quest’ultimo di riottenere ciò che a lui è stato tolto: una vita.
Sebbene il personaggio fosse già stato introdotto nel secondo capitolo di Daredevil e già si fosse visto che avesse delle potenzialità, la possibilità di uno spin off ne ha permesso un’analisi molto più approfondita. Ci troviamo infatti di fronte ad un prodotto che, contrariamente a quanto si possa pensare, preme molto sugli aspetti emozionali ed intrinsechi; Castle non viene dipinto unicamente come un ex marine intento a far pulizia di criminali, ma ne vengono analizzati numerosi dettagli in modo tale che lo spettatore possa arrivare ad empatizzare il più possibile con lui.
Vengono affrontati diversi temi nel corso dei 13 episodi e, grazie anche ad alcune scene apparentemente ininfluenti (vedisi quelle con la famiglia di David), tutti i personaggi vengono delineati ed assumono un’identità propria.
Abbiamo quindi la questione dello shock post traumatico; vediamo infatti le reazioni più disparate di numerosi soldati dopo il rientro dalla guerra. Uomini logorati da ciò che hanno visto ed hanno fatto. Uomini ormai troppo legati ad un mondo di brutalità per potersi reintrodurre in una società che pare non accorgersi di loro, a meno che essi non portino un marchio indelebile. Uomini scissi da una guerra interna. Portavoce di questi è Lewis, un giovane marine che ormai vede insidie e congiure in ogni dove e, succube dei propri traumi, reagisce aggressivamente.
Si parla poi di solitudine, della solitudine di cui tutti i personaggi, nessuno escluso, sono impregnati.
Frank è solo non unicamente perché la sua famiglia gli è stata sottratta, ma anche perché ormai vede in se stesso unicamente una macchina da guerra. Si è autonomamente ridotto ad animale, non vedendo più in sé alcuna parvenza umana.
David è un emarginato della società, uno spettro della grande mela, privato della sua identità e dei suoi cari, segregato in uno scantinato in attesa che una sorta di giustizia lo scarceri da quell’inferno in terra.
Sarah è una vedova di guerra, ma non della classica, di una guerra tra verità e bugie, tra moralità e scorrettezza. Una donna costretta a sopravvivere con il ricordo storpiato e violentato dai media del marito.
Madani è sola, perché costretta a far una scelta tra vita e professione, perché non ha supporti nelle sue ideologie e perché gli unici uomini in cui pare riporre fiducia in un modo o nell’altro finiranno per abbandonarla o tradirla.
Vi è poi un’abbondante analisi della tematica del dolore, dolore fisico ed emotivo e, grazie all’interpetazione di Jon Bernthal, il personaggio di Frank riesce a mostrarci tutto ciò. Abbiamo infatti questa figura così massiccia all’aspetto, così intimidatoria (sembrerebbe un armadio a due ante, ma in realtà ho scoperto essere una versione compatta di meno di 1,80), ma caratterizzata da uno sguardo perennemente cupo, da uno sguardo nostalgico, a dimostrazione del fatto che, sotto a quell’ammasso di muscoli e cicatrici, vi sia un uomo. Un uomo in grado di amare, di empatizzare e di provare dolore. Ed è grazie a ciò se gli scoppi di ira del punitore, se le scene di violenza inaudita, divengono per lo spettatore un pugno dello stomaco. Non ci si abitua alla violenza, perché Frank pare solo bisognoso di un abbraccio e persino Karen sembra averlo compreso.
Le sequenze violente si possono contare sulle dita di una mano, ma quelle poche che ci sono non sono coreograficamente eleganti come quelle dei difensori, sono crude, brutali e muscolari, perché il punitore non ha superpoteri, è solo un marine abituato ad uccidere a mani nude. E così ci si trova difronte a scene di un impeto inaudito e, se pensavate che Daredevil ne prendesse tante, vi ricrederete, perché Castle viene martoriato, dilaniato e macellato da pugni, coltelli e proiettili.
Questa figura animalesca ed istintiva si contrappone a quella razionale e sistematica di David. E questa è la ragione per cui il loro duo riesce a funzionare, sia nei momenti di azione che in quelli della loro nuova quotidianità; nelle dispute, negli scherzi, nei dialoghi di due fantasmi che vivono di ricordi.
Nel corso dell’intera stagione vediamo Castle intento a combattere una guerra per due famiglie: per vendicare la sua e salvare quella di David, la quale diviene specchio di ciò che lui ha perso. Proprio per questa ragione la tensione sessuale che viene delineata tra Frank/Pit e Sarah non può aver uno sviluppo, non solo perché David è vivo e li osserva, ma anche perché Frank vive nei ricordi della moglie, ciò che noi vediamo muoversi per le strade di New York non è altro che una sua mera proiezione, egli si trova con la sua famiglia in qualche angolo remoto della sua mente. Questo lo dimostrano anche le scene con Karen, con la quale non può nascere nulla, perché Frank nella sua testa risulta essere ancora legato e non tradirebbe mai coloro che ama. Tutto ciò che fa è ormai un’azione spinta dall’inerzia per una promessa silenziosa stretta alla moglie defunta.
Meravigliosa in tal senso è anche la scena del finale di stagione in cui il dolore fisico viene sostituito dal dolore della perdita: quando Castle è colpito invece di crollare al suolo, sprofonda tra le lenzuola con Maria. Si perde in lei, per poi ritrovarsi nel cazzotto successivo, in un eterno loop di dolore.
Un altro tema affrontato è quello del tradimento, se infatti abbiamo visto che il protagonista non sarebbe mai in grado di voltare le spalle a nessuno, vi sono altri personaggi disposti a mettere i propri vantaggi davanti a chiunque, sia esso un fratello, un collega, un amante. Abbiamo dunque l’introduzione del personaggio che si evolverà in Mosaico/Jigsaw, uomo accecato dal proprio aspetto e dalla continua ricerca della perfezione fisica a discapito di quella emotiva. Sarà questo soggetto a permettere a Frank un’evoluzione; la comprensione che talvolta la morte non sia la soluzione a tutto, che per taluni vi siano punizioni peggiori e che quindi egli non debba necessariamente macchiarsi le mani.
The Punisher è quindi una serie matura che si prende tutto il tempo per poter caratterizzare i suoi personaggi e costruirne delle dinamiche verosimili (basti pensare che ci vogliono 10 episodi affinché le due storyline -quella di Lewis e quella di Frank- si intersechino), è una serie violenta fisicamente ed emotivamente, caratterizzata da una colonna sonora che spazia da Manson a Waits (lodevole è la scena nel secondo episodio accompagnata da “Hell Broke Luce” che riporta metaforicamente in vita il Punitore).
Come dissi nella recensione di Iron Fist, Netflix meritava che gli si desse una seconda chance e, grazie a The punisher, ci ha dimostrato di aver ancora tanto da dire nel suo universo Marvel. Ci ha dimostrato che nella sua cupa e fumosa New York le storie ben scritte e realizzate possono ancora esistere.
Si parla già di una possibile seconda stagione e noi, dal canto nostro, ci siederemo pazientemente ad aspettarla, nell’attesa di poter rivedere Frank Castle malmenare i newyorkesi.
Camilla.