The French Dispatch -la forma non basta-

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The French Dispatch of The Liberty, Kansas Evening Sun  è la decima fatica del regista statunitense Wes Anderson che, a due anni dalla data di uscita originale, ha finalmente visto la luce del sole. La pellicola è suddivisa in tre episodi ed un epilogo; si apre e si chiude con la morte per sancire un nostalgico omaggio al giornalismo d’altri tempi, in cui la scrittura aveva un altro sapore ed un altro valore. 

La storia dà vita agli articoli dell’ultimo numero del giornale francese The French Dispatch, destinato ad estinguersi a seguito della dipartita del proprio creatore, rappresentando così il necrologio per l’opera, l’uomo e l’epoca. Di per sé la suddivisione in capitoli non costituirebbe un problema (si pensi a La ballata di Buster Scruggs dei Coen), sennonché essi hanno intensità e capacità di intrattenere differenti; si parte dunque con un primo episodio brillante per poi gradualmente arenarsi in un terzo episodio confuso. Il tutto con una struttura che manca comunque di una coerenza di fondo e di adesività, per cui non si riesce ad identificare il filo logico che mantiene il tutto coeso ed ovviamente ciò va ad intaccare il ritmo dell’intera opera.

Wes si circonda al solito di un cast stellare selezionando i suoi attori feticcio con poche aggiunte: nel primo episodio vi sono perciò Benicio Del Toro, Lea Seydoux e Adrien Brody, le cui vicende sono narrate da Tilda Swinton, a seguire Thimotèe Chalamet, Frances McDormand e Christoph Waltz danno vita ad una rivolta studentesca, per poi veder Edward Norton, William Dafoe, Saoirse Ronan nel capitolo che precede l’epilogo dove invece si riuniscono Owen Wilson, Bill Murray, Elisabeth Moss. Il problema principale della pellicola è che l’intera storia è basata su uno sproloquio dei personaggi, i quali rigurgitano sull’attonito consumatore di popcorn un’abominevole quantità di parole altamente ricercate per far fede all’ambiente intellettuale tanto caro al regista, finendo quindi per stordirlo con un prolisso turbinio di vocaboli. Il film è quindi altamente verboso al punto da divenire ostico, al punto da non lasciare il tempo di analizzare e comprendere le informazioni che stanno venendo districate. La scelta stessa di un cast così abbondante per episodi tanto ridotti riduce gran parte delle interpretazioni a macchiette in uno spettacolo di burattini.

 

Visivamente impeccabile, Anderson rinnova il suo amore per la simmetria, regalando ancora una volta una pellicola in cui ogni singolo frame merita di essere assaporato ed analizzato, riconfermando una raffinatezza ed una compostezza d’immagine difficili da pareggiare. Per la prima volta v’è poi un abbondante utilizzo delle animazioni in scene cardine per la pellicola. Unica pecca nel reparto visivo è l’utilizzo del bianco e nero per il quale non pare esserci un vero e proprio studio alla base, ma che sembra essere casualmente estratto dal cilindro per confondere il già parecchio smarrito spettatore. Solo in poche circostanze se ne coglie l’effettivo valore (vedasi la scena degli occhi di Saroise, la quale mi ha ricordato un escamotage già utilizzato in Sin City). 

Wes dimostra ancora una volta di preferir non cambiare la propria squadra rodata vincente, ragion per cui ad accompagnarci nel suo elegante e patinato mondo di colori pastello sono le note di Desplat che compone una musica dolce e delicata, per la quale non è difficile identificare l’orecchio da cui è nata.

In conclusione non è di certo la miglior opera del regista, anche perché pare essere più che altro un malinconico omaggio a tutto ciò che egli rappresenta e tutto ciò che negli anni ha costruito, ma, benché non fornisca nuovi spunti di analisi per la filmografia dell’autore e non rappresenti nulla di innovativo, anche semplicemente per il forte impatto visivo il mio consiglio resta sempre e comunque la visione in sala. 

Camilla.

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