Malcolm & Marie -Storia di un diverbio-

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Malcolm & Marie è il primo film frutto della pandemia; girato totalmente durante il primo lockdown con una troupe composta unicamente da 22 membri e con una durata delle riprese di 15 giorni, rappresenta il risultato tangibile delle conseguenze della chiusura mondiale. Tutto è ridotto all’osso: trucchi e costumi vengono improvvisati dagli attori, i quali insieme al regista e sceneggiatore, assumono anche il ruolo di produttori.

Malcolm & Marie non è una storia d’amore, è una storia sull’amore, su quell’amore tanto passionale da logorare, da diventare tossico. Ed è una storia sull’amore per il cinema, laddove i dialoghi si approfondano in specificità e citazioni limpide forse solo a chi è nel settore.

La discussione che rappresenta l’ossatura della pellicola s’innesca quando Malcolm (Washington), un emergente regista, torna a casa dalla prima di un suo film ed inizia un lungo monologo sul perché, nonostante il suo film paia essere stato apprezzato, in realtà non sia stato capito fino in fondo, poiché a suo dire è stato trasformato unicamente in un discorso politico per via del colore della sua pelle. Da qui, dopo una serie di silenzi e brevi frasi schive di Marie (Zendaya), emerge quello che è il primo trigger del litigio: Malcolm ha dimenticato di inserire Marie tra i ringraziamenti, nonostante abbia preso spunto dalla vita di lei, ex tossicodipendente, per scriverne la trama, o almeno di questo viene accusato.

Quello che segue sono poi 100 minuti di una cocente discussione, nella quale i due amanti si feriscono, si scherniscono, si umiliano e sviscerano tutti i non detto che aleggiavano nell’aria dagli albori della loro relazione. La tensione tra i due è palpabile in tutte le sue forme, anche in quella sessuale che fa si che i due finiscano per riconciliarsi, avvicinarsi, toccarsi, per poi ricadere nel baratro delle parole non ponderate, dei lemmi usati come armi.

La regia di Levinson (Euphoria) segue le performance dei due attori che si muovono nella casa come sul palco di un teatro, i carrelli modellano dei piani sequenza che mostrano l’enorme divario che separa le due personalità sin dai primi istanti quando vediamo una statica Zendaya, silenziosa all’uscio della porta, contrapporsi ad un dinamico John David Washington in preda ad un delirio. I due si trovano ai due capi della casa ogniqualvolta sono diametralmente opposti nella discussione. Sempre brutalmente divisi, anche laddove finiscono per scrutarsi l’un l’altro per mezzo dei riflessi degli specchi, finché l’istinto carnale non prende il sopravvento, finché non si rendono conto che a muoverli non è l’odio per l’altro quanto la bruciante passione ed allora tornano a riunirsi, ma come due poli finiscono poi nuovamente per respingersi in una danza eterna scandita tra tre atti.

Tre trigger.

Tre livelli di analisi del medesimo problema.

Per mezzo dei dialoghi scavano per arrivare al fulcro di una rogna la cui origine è ben più radicata di un mancato ringraziamento, la cui paura risiede nell’incapacità di accettare un amore tanto forte ed  a tratti inconcepibile. Finiscono quindi per dissotterrare ogni dubbio, ogni scetticismo, ogni diffidenza che abbiano mai provato durante i 5 anni di relazione.

La performance di Washington è molto fisica, rasenta l’overacting, per portare in scena un personaggio fuori dalle righe, altamente egocentrico ed ossessionato dall’idea che nessuno possa comprenderne a fondo il genio. Sviluppa ed estrinseca le paure moderne connesse alla relazione tra l’arte e l’etnia, tra l’arte e il sesso. Il terrore di non riuscire a vedere al di là dell’involucro di carne che è l’uomo, per mettere in luce l’artista e il messaggio. 

Dall’altra parte abbiamo Zendaya più contenuta nella fisicità, ma non per questo meno appariscente nella sua presenza scenica. Essa da vita ad una giovane divorata dal pensiero di aver perso l’unica chance per poter dar voce a sé stessa e per poter uscire dall’ombra del proprio compagno. Mentre Malcolm si dimena, si muove spasmodicamente e senza uno scopo, le azioni di Marie sono più concrete, più tangibili, essa cucina, si spoglia, si strucca, si lava. Creando un ulteriore distanza tra i due.

Esteticamente il film è impeccabile, l’eleganza del bianco e nero semplifica la struttura e permette di focalizzarsi unicamente sull’infinità verbosità della sceneggiatura, mentre Lavinson ci accompagna nell’analisi di questo odi et amo, sviscerando al contempo quelli che sono i temi pungenti di Hollywood.

Malcolm and Marie è un riuscito mix di Carnage e di storia di un matrimonio, in cui il regista sceglie di porre la destrutturazione di un amore al centro della pellicola e ne presenta senza paura i riflessi negativi, mostrando come due persone che si amano tanto siano anche quelle più in grado di ferirsi, conoscendo dell’altro ogni centimetro di pelle ed ogni cicatrice.

Si tratta di un film che merita assolutamente la visione, sia per l’ottimo risultato, sia perché è una diretta conseguenza del momento storico nel quale ci troviamo. Ed alla fine della visione, dopo essere stati frastornati dalle parole, dalle supposizioni e dall’idea che ogni opera giustamente sia altamente influenzata dalla prospettiva e dalla sensibilità del suo creatore,  non ci si può far altro che domandarsi come sarebbe stato se fosse stato diretto da una donna o da un uomo di un’etnia diversa.

Camilla.

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