Madre! Quando la Bibbia fa da Cicerone

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Madre! di Darren Aronofsky è certamente il film che ha maggiormente diviso la critica in quel di Venezia durante l’ultima mostra del cinema. Dopo il mezzo flop di Noah rappresentava il ritorno in sala del regista. Ritorno atteso soprattutto per via dell’insistente, sebbene parecchio celata, campagna pubblicitaria degli ultimi mesi che si basava sulla reticenza. Sull’accennare il minimo indispensabile sul film, una quantità di informazioni che fosse sufficiente ad attrarre il pubblico, ma che non fosse tanto consistente da poter saziare la sua sete di conoscenza, ma anzi che potesse solo stimolarne la curiosità. Primo passo tra tutti fu la diffusione, in onore della festa della mamma, del poster patinato ed al tempo stesso macabro, ritraente Jennifer Lawrence intenta a cedere, letteralmente, il proprio cuore immersa in una cornice floreale. Fu poi la volta del teaser trailer nel quale si vedeva la giovane attrice aggirarsi lentamente in un’immensa casa, accompagnata solo da voci e suoni apparentemente confusi, la cui analisi rivelava però il volto di Bardem.

E poi l’accoglienza a Venezia ed in sala con fischi e numeri del botteghino talmente bassi da rappresentare per la Lawrence un record in negativo.

Non v’era quindi altro modo per capire di cosa si stesse parlando se non quello di dirigersi in sala e smettere di tergiversare. Dopo tutto anche The Neon Demon aveva subito un’accoglienza simile.

Gli inquietanti presagi per Mother! proseguirono però sin all’ingresso in sala, quando il bigliettaio guardandomi e definendomi “una mosca bianca” mi avvertí che la visione a cui mi stavo accingendo si sarebbe rivelata parecchio impegnativa.

E dopo questa introduzione non ci resta che parlare del film.

Mother è un film claustrofobico. Lo è sin dai primi minuti in cui la telecamera non si stacca dal volto della Lawrence ed, anche quando lo fa, lascia comunque la sua figura in primo piano mostrando i restanti personaggi solo attraverso di essa.

La trama è brevemente quella di una coppia immersa nella monotonia della sua esistenza che deve la propria formazione alla casa nella quale dimora. Abitazione che fin da subito viene detto essere stata vittima di un incendio e, dalle cui ceneri, la giovane moglie sta tentando di ricreare delle salde fondamenta per il marito poeta. La loro quiete viene però messa alla prova dall’improvvisa irruzione di due ospiti inattesi.

Nel suo primo atto si sviluppa come una storia inverosimilmente angosciante nella sua semplicità, che riesce a farti empatizzare fin da subito con la padrona di casa, per mezzo appunto degli espedienti registici. Ed allora i personaggi della Pfeiffer e di Harris, gli ospiti della casa, non possono che apparire come incredibilmente irritanti e molesti. Fino a qui non vi è però nulla di allegorico o di onirico, o almeno non vi è nulla fino a che non si è terminata la visione da almeno un paio d’ore e non si è ripensato ad ogni singola inquadratura.

Ma, dalla seconda metà, ha inizio una vera e propria discesa verso gli inferi, quello che era un thriller psicologico vira improvvisamente verso il visionario, il surreale, verso una dimensione totalmente allegorica e simbolica, in cui nulla è lasciato al caso ed in cui la Bibbia pare essere la primaria fonte d’ispirazione.

Tutto ha inizio, come nel caso della più famosa coppia della storia, con la disubbidienza all’unica regola imposta dal padrone di casa. Ed, esattamente come Adamo ed Eva dopo la cacciata dal paradiso, i due ospiti si rifugiano irrazionalmente nel piacere carnale. Da qui in avanti non una singola scena avrà senso se non interpretata in maniera allegorica, l’intero racconto si rivelerà essere una critica in parte alla religione, in parte all’uomo in generale incapace di ricevere i doni della Madre, la natura, la terra, senza abusarne, senza portarla all’esasperazione, senza dimostrarsi del tutto fuori luogo.

Dalla genesi il viaggio proseguirà mostrandoci la vicenda di Caino e Di Abele, le piaghe d’Egitto, la smania dell’uomo religioso di apparire agli occhi di Dio. Si giungerà sino al nuovo testamento con il sacrificio del figlio di Dio, con il suo divenire pane per i fedeli, e si chiuderà infine con l’Apocalisse. Con quelle fiamme che ci erano state mostrate nella prima immagine del film.

Ciò che turba maggiormente del film di Aronofsky, oltre alla sua iniziale confusione nonché alla sua svolta del tutto inaspettata, è che la visione del regista risulta essere del tutto pessimistica: egli rappresenta un Dio narcisista, un dio che agisce unicamente con lo scopo di incrementare la crescita del proprio ego, che spinge l’uomo a peccare pur di poter aver il potere di perdonare. Un Dio che apparentemente non ha a cuore nulla, né le sue creature né i suoi seguaci. Che è disposto a sacrificare ogni cosa per vana gloria.

Dall’altra parte abbiamo una madre (natura) che si dimostra più restia nel condividere ciò che le appartiene, ma che viene comunque privata di ogni cosa dalla smania dell’eccessiva condivisione del marito. Ella arriva ad essere mercificata, ad essere vittima di scherno da parte degli ospiti, a doverne subire le angherie e non importa quanto si ribelli, l’uomo arriva a prendere tutto ciò che vuole. E così vengono rappresentati anche taluni dei peccati capitali insieme ad un’umanità che apparentemente di umano non ha nulla se non l’aspetto, in quando accecata dalla brama di aver accesso ad una parte del nume.

Estremamente significativa è anche una battuta recitata da Bardem nella quale viene detto che ognuno interpreta la poesia del poeta come vuole e che perciò essa è in grado di dare a ciascuno qualcosa di diverso, ricordandoci dunque come anche le scritture siano state interpretate e tradotte in maniere sempre differenti a seconda delle esigenze del singolo.

Mother si chiude poi in una scena che rappresenta forse l’apice del pessimismo che impregna l’intera pellicola, un finale in cui la madre è disposta ad un ulteriore elargizione sebbene non possegga più nulla, sebbene non abbia più nulla da donare perché sia stata privata di ogni cosa. Ci si trova davanti all’offerta di una seconda possibilità, anche se ci viene fatto intuire che si tratti dell’ennesima concessa, ma si abbandona la sala con la consapevolezza che anche questa verrà probabilmente sprecata.

Si lascia la sala dopo la visione di un film complesso, un film audace che può vantarsi di non lasciar indifferente alcun tipo di pubblico. Perché che siano fischi o che siano applausi, è una pellicola che scuote, che turba lo spettatore, che lo porta all’esasperazione.

Il compito del cinema non è solo quello di intrattenere, ma anche quello di spingerci a pensare, a conoscere e questo film non si può negare che lo faccia. Le Major raramente producono film tanto sperimentali ed ancor più raramente lo fanno per mezzo di un cast che include un’attrice mainstream come la Lawrence, quindi un altro punto a favore di Aronfsky è quello di aver sfruttato un’immagine tanto nota per un film il cui pubblico è certamente di nicchia. Si è trattato di un azzardo che potrebbe rappresentare una virata per l’industria cinematografica verso imprese più d’avanguardia, ma che di certo ha posto il regista alla mercé di un esorbitante quantitativo di critiche.

Ed anche solo per questo penso che vada concessa una chance al film.

In conclusione non è certamente una pellicola da guardare la domenica sera in compagnia di qualche amico con una birra e dei pop corn, ma è comunque un film che merita una visione, anche semplicemente perché è tanto grottesco, assurdo, inconcepibile ed alienante che solo vedendolo si può comprendere l’entità di tale follia.

Ed anche perché i temi che tratta, l’abuso incondizionato delle risorse concesseci in primis, sono innegabili, ed una sana discussione nata dalla visione di un film è sempre ben accetta.

Camilla.

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