Il dramma di aver installato il vecchio TvShowTime, l’attuale TV Time, è che ogni qualvolta, vagando per internet, io mi imbatta in una serie che, per un motivo o per un altro, attrae la mia attenzione ed accende il mio campanello d’allarme, mi sia sufficiente un colpo di indice per far sì che tale show entri a far parte del mio calendario. E può anche darsi che trascorrano mesi prima dell’effettiva messa in onda, perciò è possibile anche che, avendo io purtroppo o per fortuna, anche altro da fare oltre a guardare serie TV, quando mi giunge la notifica dell’uscita della serie, io abbia totalmente rimosso il motivo per il quale l’avessi aggiunta.
E questo è ciò che è successo con American Gods.
Non avendo mai letto l’opera di Gaiman e dando un’occhiata veloce alla descrizione fornita dall’app, pensai che l’anno passato l’avessi aggiunta per via della presenza di Ian McShane, eppure la questione mi pareva ancora strana. Però si sa, un vero serial Watcher non si pone granché problemi ad iniziare un nuovo prodotto che possa mettere seriamente a repentaglio la sua vita sociale e così, senza ulteriori indugi, quel fatidico due maggio guardai il pilot.
Le immagini iniziarono a scorrere davanti ai miei occhi, mentre ancora la mia mente cercava di capire quale dettaglio malsano l’avesse condotta a tale visione. La sigla, con le luci al neon che risaltano su toni scuri, ricorda molto la fotografia utilizzata da Refn. La musica mi tornava alla mente come familiare, eppure ancora non riuscivo a comprenderne la ragione.
Fatto sta che in una decina di minuti il mio problema era totalmente svanito, perché quel pilot era bello, ma bello davvero.
In breve la storia tratta di Shadow Moon, un galeotto prossimo ad esaurire la sua condanna, quando, a causa dell’improvvisa dipartita della moglie, viene scarcerato in anticipo ed incappa in un alquanto discutibile personaggio che si presenta come Mr. Wednesday. Costui si propone di offrirgli un impiego quale sua guardia del corpo. Qui la storia vira verso un leggero cliché; Shadow pare non accettare, ma il corso degli eventi farà in modo che il duo si consolidi. Attorno alla storyline principale vengono però introdotti sin dal primo episodio alcuni personaggi secondari che ad ora paiono totalmente decontestualizzati, ma che andranno a comporre quello che sarà un disegno più grande. Tutti questi soggetti sono per lo più antiche divinità in rovina, alla disperata e bramosa ricerca della perduta venerazione in modo tale da poter percepire la gloria dei tempi che furono (essi la richiedono nei modi più disparati, di certo il più discutibile è quello di Bilquis; costei usufruisce del proprio fascino carnale per sedurre i propri fedeli ed arrivare, all’apice del reciproco piacere, a fagocitarli con i propri genitali), vi sono poi giovani divinità pronte a conquistare un mondo ormai dalle mille connessioni, basato sui media e sulle tecnologie e vi sono infine personaggi né umani né divini, ma appartenenti alle varie culture, quali leprecauni e zombie. Certo, descritta così pare un potpourri di personaggi ripescati da fiabe ed incubi ed inseriti, senza ragione di causa, in un viaggio cost to cost di un ex galeotto ed un personaggio del cui passato non si sa assolutamente nulla.
Ok, non ho migliorato la situazione, eppure tutti questi mondi, tutte queste diverse leggende sono amalgamate in maniera del tutto omogenea e persino dannatamente plausibile in questa serie, contribuiscono poi una fotografia barocca ed a tratti persino kitsch, ma in una maniera del tutto apprezzabile, delle prove attoriali degne di nota (specialmente quella di McShane) ed una colonna sonora che accompagna divinamente -restando in tema- l’incessante procedere delle immagini.
Nei primi episodi lo scontro divino rimane meramente intuibile; si riesce a percepirne l’anelo caldo celarsi dietro ad ogni conversazione, pronto a generale la scintilla che dia il via all’inizio della fine. Si riescono a carpirne solo pochi dettagli per volta che portano lo spettatore a fantasticare sui possibili esiti. Si riescono a percepire, covate dietro agli sguardi cupi e rancorosi, le urla che accompagneranno i fiumi di sangue che saranno versati. Perché molto probabilmente così sarà, sin dal prologo American Gods ci mostra come non abbia paura di macchiarsi le mani, come non tema spargimenti di sangue e corpi martoriati.
E fu anche grazie ad una di queste scene alla conclusione del primo episodio che ebbi il lampo di genio; mi ricordai improvvisamente della ragione per la quale volessi dare fiducia a questo prodotto seriale. Mi bastò vedere una sequenza ambientata durante un temporale; le gocce di pioggia, di un intenso color pece, al rallentatore precipitano nella notte ancora più scura, i corpi violentemente dilaniati il cui sangue sgorga in maniera inverosimile umettano la terra circostante. Come avevo potuto dimenticare? Questa serie era l’atteso ritorno di Bryan Fuller, dopo che ci aveva ingiustamente ed improvvisamente abbandonati per via della cancellazione de compianto Hannibal. Ed ecco che finalmente anche la fotografia, le musiche caratterizzate da poche note, le immagini grottesche ed oniriche e persino il casting, tutto aveva nuovamente senso.
Ora che ci troviamo quasi a metà della prima stagione mi sento, senza alcun riguardo, di consigliere American Gods, perché, per quanto sia una serie del tutto particolare e di certo non semplice, per via anche della narrazione esplosa, è certamente una delle novità più interessanti e rilevanti del 2017.
Ed inoltre, come già accennato, si tratta del nuovo pargolo di Fuller e, vista la bellezza e la perfezione di Hannibal, oserei dire che un po’ di fiducia gliela dobbiamo.
Camilla.