The lighthouse è il secondo lungometraggio del coraggioso regista Eggers dopo l’acclamato The vvitch. Si tratta di una pellicola di cui si potrebbe discutere per ore, sia per la messa in scena che per le svariate possibili interpretazioni. Girato in 35 mm 1,19:1 in bianco e nero con unicamente due personaggi in un’unica ambientazione. Dafoe e Pattinson sono clamorosi nel riuscire a reggere quasi due ore di lungometraggio sulle proprie spalle senza mai interagire con terzi e senza mai abbandonare lo scoglio ove si erge il faro.
Williem Dafoe è Thomas, un vecchio lupo di mare, flatulente e carico di rimpianti e frustrazioni per aver dovuto abbandonare ciò che più ama, gli abissi. Pattinson è invece Winslow, un giovane taciturno dal passato oscuro, in fuga dai propri peccati ed alla ricerca di una stabilità, che commette il tragico errore di fuggire dal mondo, quando l’unico da cui dovrebbe fuggire è lui stesso.
La chiave di lettura più semplice è quella che vede la vicenda come una discesa verso gli inferi di due uomini abbandonati a loro stessi, circondati unicamente da un burrascoso mare, obbligati a fare i conti con le proprie coscienze nell’assordante silenzio della solitudine. I pensieri ruminanti, i sensi di colpa, l’intricato rapporto di odio ed amore, trascinano le due menti rapidamente verso la follia, verso la violenza, verso gli abissi. In una routine scandita da stacanoviste ore di lavoro, lo spettatore si trova soggiogato sin dai primi minuti nella ferrea quotidianità dei personaggi, ci si sente oppressi dalla situazione ed a favorirne la sensazione è la riduzione del formato dello schermo, quasi fosse una prigione al pari dello scoglio, se non v’è libertà per i protagonisti, perché garantirla a chi li spia e li giudica dal proprio divano.
Nessuno può sfuggire alla propria mente.
Nessuno è superiore.
Ad appesantire ulteriormente il clima sono le urla del mare e le grida dei gabbiani, anime di defunti marinai intrappolate in volatili marini, un ulteriore scherno e forma di prigionia per chi tanto ama il mare, costretto ora a vederlo dai cieli senza mai poterlo toccare. Poche note ed il roco e tetro rumore del faro completano il restante quadro di inquietudine sonora. Un crescendo di impressioni unicamente uditive, che incrementano la tensione, tendono gli animi come corde di violino nell’attesa che tutto precipiti. La follia imperversa tra visioni, storie e leggende, tra allucinazioni e ricordi, tutto si mescola, ciò che era reale diventa menzogna, ciò che era fantasia diviene concreto. Il tempo fuoriesce da ogni logica, i minuti si dilatano e si accorciano al medesimo istante in quello che è un momento sospeso, da quanto i due uomini sono soli? Vi sono davvero entrambi o sono l’uno il sogno dell’altro? Esiste il faro o è unicamente un purgatorio per espiare le proprie colpe?
L’altra visione che risulta di facile interpretazione, specialmente grazie alla scena finale, è quella del mito di Prometeo, l’uomo così bramoso di possedere il fuoco per darlo agli uomini, da essere pronto a sfidare gli dei. E così fa il giovane Pattinson, desideroso, ardente, di vedere la luce del faro, si ribella al Dio, Dafoe, arriva a schernirlo, a sminuirlo, ad aggredirlo. Ma la visione della luce è troppa per chi è mortale, per chi è fatto di carne e peccati, perciò la possibile fine è unicamente quella di perire. Quale divinità sia Dafoe è possibile ipotizzare Nettuno, sia per il potente monologo nel quale terrorizza e minaccia il giovane, sia per il sogno e le allucinazioni di Winslow.
The lighthouse è un film unico, che ha perduto la sua chance di finire in sala, ma che probabilmente non avrebbe comunque, nemmeno in circostanze più favorevoli goduto della distribuzione che si sarebbe meritato. Perciò ciò che a noi è concesso fare è diffondere il verbo e far si che non passi in sordina, perché è di certo uno dei migliori horror degli ultimi anni e sicuramente è un genere che ha bisogno di qualche nuovo scossone. Soprattutto in quanto si tratta di una pellicola altamente sperimentale, ma che, nonostante abbia abbandonato gran parte dei canoni del genere, si pensi ai semplici jumpscare ormai sempre più in voga, è in grado di mantenere l’attenzione, l’interesse e la tensione per tutta la sua durata, nonché è in grado di innescare decine di pensieri ed indagini su ogni suo fotogramma ed ogni sua possibile lettura anche nelle ore e nei giorni successivi alla visione.
Camilla.