Erano ormai più di due anni che il diavolo di Hell’s Kitchen non tornava in casa Netflix da solista, o meglio, aveva comunque primeggiato a mani basse in The Defenders, ma ciò non era comunque bastato a permettergli di raggiungere gli antichi splendori della sua prima (e metà della seconda) stagione. Ma gli è stato sufficiente abbandonare, così come ha fatto la sua stessa creatrice, gli altri tre difensori e riprendere le sue atmosfere dark, ma soprattutto riprendere la sua nemesi per eccellenza; Wilson Fisk.
Avevamo lasciato Daredevil sotto le macerie di un palazzo crollato mentre stringeva Elettra in un caldo abbraccio nell’attesa di quello gelido della morte e lo ritroviamo logoro, spezzato, nel cuore e nel corpo. Incapace di ricomporre i propri pezzi. Incapace di accettare l’ennesima privazione alla quale il suo Dio l’ha sottoposto. Incapace di perdonare e di perdonarsi.
Questa terza stagione tratta della sua rinascita, della sua ribalta nel momento in cui accoglie pienamente, non senza scrupoli, la propria figura demoniaca: Matt Murdock è morto. Daredevil è nato. O per lo meno questo è ciò di cui prova a convincersi nel corso dei 13 episodi, mentre allontana chiunque provi affetto per lui, nonostante questi continuino imperterriti a bussare alla sua porta (ed anzi addirittura a garantirgliene una). Questo è ciò di cui prova ad autoconvincersi mentre abbandona i suoi dialoghi con Padre Lantom in favore di monologhi con i propri spettri. Fantasmi del suo passato che l’hanno marchiato, che l’hanno relegato in un mondo privo di luce e l’hanno costretto, in un modo o nell’altro, a rifugiarsi dietro ad una maschera.
Daredevil è vivo, Matt Murdock è morto, al punto tale che si smaschera, si smaschera per dar fiducia, si smaschera per dimostrare di non aver più nulla da perdere, quando invece ha tutto, perché alla fine, dopo svariati episodi di solitudine e drammi, arriva all’assoluta consapevolezza che non v’è distinzione tra Matt Mardock e Daredevil, che Matt è il Diavolo ed il Diavolo è Matt. E a provare ciò è il fatto che non gli serva una maschera o una tuta rossa per divenire l’eroe di Hell’s Kitchen. Egli comprende che tutto ciò che gli è capitato è stato necessario alla sua effettiva nascita e realizzazione e, per mostrarci ciò, sfrutta la metafora dell’arazzo, del capolavoro di cui l’uomo può vedere solo il retro, con i nodi e le cuciture, mentre di cui Dio può ammirarne la completezza.
Questa stagione è incredibilmente forte, lo è perché abbandona ninja e katane in favore del clima poliziesco della prima stagione, in favore di una profonda analisi sulla corruzione, sul labile confine tra il bene ed il male. Un confine che Matt stesso si trova a dover decidere se attraversare per un bene più grande. Non è solo azione e platealità, ma anche inganni, sotterfugi e sfide a colpi di legge ed astuzia.
La scrittura dei personaggi riconferma che Daredevil sia la miglior collaborazione tra Marvel e Netflix; i 13 episodi sono necessari per lo sviluppo della trama e non si appesantiscono mai. Sono necessari per la caratterizzazione di ogni figura, ciascuna delle quali riveste un ruolo fondamentale per la trama, nessuna è abbozzata, tutte sono perfettamente delineate e con una profondità propria; ciò vale sia per coloro che già ci erano noti, da Karen a Foggy, dei quali però ci vengono descritti maggiormente i relativi passati, sia per i nuovi personaggi, quindi all’agente Ray Nadeen, un onesto agente federale dilaniato dal male dilagante, costretto a divenire ciò che più odia e a rinnegare i propri principi, sino a Ben Dex, acerbo zigote da cui trarrà origine uno degli acerrimi nemici di Daredevil stesso: Bullseye. A collaborare con la perfetta riuscita dei personaggi sono poi prove attoriali come quella di Charlie Cox, ma soprattutto quella di Vincent D’Onofrio.
Visivamente si riconferma un prodotto eccellente; la città plumbea, buia, tetra, teatro dei peggiori crimini, nella quale nascosto da sotterfugi, ma all’apparente luce del giorno, agisce Fisk, immagine del male in candide vesti bianche. Pallore che si oppone al nero del Devil in modo tale che anche visivamente la distinzione tra loro sia netta. Il candore di Fisk, fasullamente intonso in gran parte degli episodi nonostante le mani sporche e l’animo macchiato, finisce per sporcarsi unicamente con il rosso del sangue. Dello stesso sangue che macchia anche il suo adorato quadro.
Come in ogni stagione ci vengono poi regalati dei combattimenti magistralmente diretti e coreografati e, sin dai primi minuti, ci si ritrova in trepidante attesa di quel piano sequenza che ci ricorderà perché amiamo tanto questa serie ed infatti, eccolo, ambientato nella prigione, in una claustrofobica sequenza di fuga di Matt da quasi 12 minuti. Ma, stavolta, non è questo il combattimento davanti al quale ci troviamo a chinare il capo, ma bensì lo troviamo nel miglior episodio della stagione, il sesto. In tale occasione abbiamo infatti lo scontro tra i due Daredevil, il feticcio di Fisk e l’originale; una scena da cardiopalmo nella quale si vanno a contrapporre due tra i più famosi personaggi della Marvel con le loro rispettive peculiarità: l’infallibile mira di Bullseye e la violenza e la precisione del corpo a corpo di Daredevil.
Alla fine della stagione ci si ritrova quindi a non poter far altro che diventare fedeli come Matt, ma se lui crede in Dio, noi crediamo in Netflix, perché se vuole sa come farci fremere davanti ai suoi prodotti originali e non saranno certo un Luke Cage o un Iron Fist a rovinarle la reputazione fino a che Daredevil le terrà alto l’onore.
Camilla.